Dai riflettori scintillanti del mondo della notte al calore avvolgente dei fornelli, fino al magnetismo della macchina da presa: Mirco Di Centa è l’incarnazione di una metamorfosi artistica senza confini. Ex stripman, ha trasformato la sua vita in un caleidoscopio di passioni. Tra queste, brilla quella per la recitazione, oggi in particolare, in “Un posto sicuro” (prodotto da Imagine the Stars per la regia di Luca Tartaglia), pellicola in cui interpreta una sorta di demone in un mondo devastato da una Pandemia misteriosa e mortale.
Mirco, partiamo dal principio. La definizione di “cuoco di giorno e stripman di notte” che si trova ancora in Rete è piuttosto stravagante. Che effetto ti fa oggi, ché sei anche attore?
«Beh, ha fatto comunque parte di quello che sono stato per tanti anni e quindi è sempre un modo di raccontare delle esperienze divertenti. Un po’ per strappare un sorriso, se vogliamo. Perché negli ultimi anni la figura dello spogliarellista è stata un po’ sdoganata soprattutto con l’avvento di pellicole americane quali “Magic Mike” con Channing Tatum, mentre prima veniva sempre vista con un po’ di critica. Il successo di quei film, poi, l’ha portata quasi al livello di un supereroe».
In ogni caso hai riposto il perizoma nel cassetto. La passione per la cucina, invece, continua?
«No, ho cambiato totalmente dopo un decennio e oltre. Ho 33 anni; a 20 ho cominciato all’interno dei ristoranti per poi entrare in una struttura a Conegliano, in provincia di Treviso, in Veneto, di cui sono diventato socio titolare nonché cuoco. Per anni ho coltivato questa attività; poi, con l’avvento delle chiusure e limitazioni partite dal 2020, mi sono accorto che non era realmente la professione che avrei voluto svolgere per il resto della vita e ho iniziato a dedicarmi ad altro. È nato l’interesse per la recitazione; ho intrapreso un percorso di studi come acting coach e poi un po’ di strada tra esperimenti e qualche pellicola, fino ad arrivare a “Un posto sicuro”».

Quando hai capito che il cinema sarebbe diventato parte integrante della tua vita?
«È una cosa curiosa. Quando intraprendi un percorso come attore viene spesso utilizzata la frase: “Mettersi a nudo davanti allo specchio”. Ci si riferisce allo specchio dell’anima attraverso cui si ripercorre senza filtri, dogmatismi e pregiudizi, tutto ciò che è accaduto nella vita, per arrivare a capire che anche in qualche fase dell’adolescenza fantasticavi l’idea di vestire i panni di differenti personaggi. Io, poi, ho fatto un percorso ulteriore: dopo le superiori mi sono iscritto all’Accademia Militare di Modena. Volevo portare avanti la carriera della mia famiglia, più per soddisfare il sogno di mio papà che il mio. Infatti, ho perso subito interesse, per poi dedicarmi a quello che, invece, era il sogno di mia mamma: attività nel settore tra hotel, ristoranti e catering. Non mi dispiaceva, ma è ben diverso dal dire che mi piacesse. Diciamo così: c’è sempre una fase in cui si decide di smettere di essere ragazzino e si desidera qualcosa di più serio per iniziare a giocare nel mondo degli adulti».
L’altra sera è stato presentato “Un posto sicuro” al cinema Adriano. Era la prima volta che calcavi un red carpet per un tuo film o una tua produzione?
«No, l’avevo già fatto nel 2023 in occasione dell’uscita di una commedia brillante indipendente intitolata “Nonna ci produce un film”, sempre in un cinema delle sale UCI a Roma. Altre volte, poi, ho partecipato in altre vesti poiché faccio da scorta agli attori, soprattutto americani. In Italia sono la guardia del corpo di Adrien Brody e agli ultimi due red carpet a Venezia ho accompagnato lui».
Che effetto fa passare dalla parte di colui che accompagna il divo a essere il protagonista fotografato? Riesci magari a capire un po’ meglio i personaggi che scorti?
«Io vedo un lato dei personaggi diverso da quello che appare davanti alle telecamere e ai fan: vedo il rapporto con quello che è l’onore di essere una celebrità internazionale e l’onere di esserlo, ovvero continuare a essere il divo che il mondo conosce. Aspetti che, spesso e volentieri, collimano e si conciliano con quella che è la personalità dell’attore; ho notato, però, uno switch tra la loro intimità e il rapporto col pubblico nel momento in cui devono fare un passo fuori dalla loro tranquillità. Ti racconto questo aneddoto. È legato alla prima volta che ho accompagnato Adrien Brody sul red carpet a Venezia nel 2022: arriviamo in auto al red carpet del palazzo del cinema, gli apro lo sportello, c’erano i fari puntati e una colonna sonora eterea in sottofondo, come se fosse un luogo slegato dalla realtà. Davanti a me si è aperta una finestra in cui vedevo me stesso come protagonista e mi sono detto: “In qualche modo devo arrivare a fare una cosa del genere”. Adesso, anche se in piccolo, una minima parte è stata soddisfatta».
In “Un posto sicuro” interpreti un uomo contagiato da un virus che un po’ ricorda le fasi pandemiche; quando ti hanno proposto la sceneggiatura, ti sei immaginato in quel ruolo? Te lo sei sentito subito cucito addosso?
«Sì, perché è una tematica che le pellicole americane hanno proposto in tutte le salse, anche se nel mercato italiano una cosa del genere è un po’ una novità. Fa comunque parte del genere “survival” e “post apocalyptic horror”, vista e rivista. Fatalità, avevo guardato da poco due pellicole, che ho poi utilizzato anche come fonte di ispirazione: una è di Zack Snyder, “Army of the Dead”, l’altra con Brad Pitt, “World War Z”. Avevo quindi già ben in testa che cosa portare sullo schermo».

Che effetto ti ha fatto rivederti sul grande schermo?
«In realtà, ho provato imbarazzo. Non ho mai avuto paura di spogliarmi davanti a 600 persone; qui, invece, ero ansioso di vedere il risultato finale, per capire se avessi fatto una figuraccia o meno. Devo ammettere che tra trucco, montaggio eccetera, non mi è dispiaciuto affatto, anzi».
Rivedendo il film e ripensando ai giorni del lockdown, che cosa hai provato? C’è qualcosa che ti ha colpito e ti ha riportato a quel periodo?
«No, perché io il momento delle chiusure non l’ho subito moltissimo. Con la ristorazione abbiamo avuto delle grosse problematiche soprattutto a livello di impresa perché, chiaramente, le entrate hanno toccato il fondo. Però, in qualche modo, rimanevamo attivi col delivery e, di conseguenza, le chiusure non le ho sofferte: ero sempre in movimento ed essendo il titolare potevo muovermi senza impedimenti. Diciamo, comunque, che la realtà surreale riportata in maniera fantastica nel film si lega al fatto che le strade erano deserte: non c’erano persone, c’era timore di interazione, c’è stato un capovolgimento totale dei rapporti sociali che ha causato danni a un sacco di persone, anche a livello psicologico».
Perché pensi che la produzione abbia scelto proprio te per questo ruolo? Per interpretare un mostro potevano scegliere qualcuno più brutto anziché un bell’uomo…
«Ma perché no? Quale occasione migliore di distruggere la bellezza? Come fai a farti scappare l’occasione? È troppo facile rendere orribile uno già brutto…».

Due lati estremi, insomma: da sex symbol a una sorta di demone. Che cosa ti appartiene caratterialmente di queste figure?
«Voglio metterla sul lato intelligente e filosofico. Questo non fa altro che riportare la bipolarità che vive all’interno di qualsiasi persona. Si ha la parte bellissima ma anche l’altra, che spesso viene celata e nascosta, ovvero quella orribile. Quest’ultima, a volte, per tutta una serie di situazioni, esce anche se non lo vorremmo; fa, però, parte di quella che è poi la natura umana».
Insomma, hai fatto parte del mondo dell’animazione e ti sei spostato sul grande schermo. Se dovessi traslocare in tv, faresti un reality? E, nel caso, quale? Un adventure tipo “Pechino Express” o “L’isola dei famosi” o altro?
«Allora tra i reality di adesso sicuramente “L’isola dei famosi”. Non perché mi ritenga famoso, ma per il semplice fatto che rappresenta una situazione di sfida in cui qualcosa in più della mera discussione può intrattenere. Perché hai a che fare con una situazione un po’ più “disperata”, in cui c’è la possibilità di mettersi alla prova».
Un reality classico, chiuso in un luogo per un tot di tempo, solo per litigare e discutere, insomma, non farebbe per te.
«No. Io, poi, sono attivo su tantissimi fronti. Oltre a fare l’attore, voglio parallelamente essere anche un imprenditore. Mi sono trasferito in Serbia per nuovi business e per aprire un’azienda. Per me, per quanto possano intrattenere, i reality sono una perdita di tempo e non nutro particolare interesse. Perché ho voglia di fare tante cose, di costruire quello che è il mio impero, per il domani dei miei cari e della mia futura famiglia. Desidero essere una persona di successo, ma non grazie alle stupidaggini».

Se dovessi definirti, come descriveresti Mirco Di Centa?
«Sono molto ambizioso; l’obiettivo è arrivare alle stelle e, mal che vada, si atterra sulla Luna. È una frase fatta che, però, racchiude un concetto molto semplice: Icaro morì perché le ali di cera che aveva costruito si sciolsero per aver volato troppo vicino al Sole. Questa storia esorta a non puntare troppo in alto; è altrettanto vero, però, che il padre di Icaro aveva sollecitato il figlio a non volare troppo in basso perché le onde lo avrebbero potuto travolgere e trascinare in fondo al mare e, quindi, sarebbe morto comunque. Annegato. Una visione, insomma, secondo cui bisogna puntare in alto con coscienza, ma non in basso. Perché anche lì c’è in ogni caso la disfatta».
Hai qualche progetto futuro in particolare?
«Nell’immediato, tra le varie aziende che sto cercando di aprire, una riguarda sicuramente una casa di produzione cinematografica. Piccolina, per cominciare. Così, poi, oltre a fare l’attore, avrò modo di autoprodurmi»